Il golpe dell’appello
Vi sono tanti modi per affrontare un problema: alcuni scelgono di confrontarsi con le altre parti interessate, altri preferiscono percorrere altre strade. C’è a chi la concertazione non piace, come all’attuale Presidente del Consiglio, che lo considera un male italiano: onore a questa dichiarazione, che consente di avere ben chiara quale sia la concezione della democrazia del sen. Monti e di chi lo sostiene, sicché ognuno potrà decidere in piena consapevolezza se condividerla o meno allorché, nel 2013, sarà finalmente possibile esprimersi con il voto. Sicuramente la giustizia italiana ha un problema: troppe cause anche in conseguenza di un numero eccessivo di avvocati provocato dallo sciagurato Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 215 del 7 settembre 1944, che, all’art. 1, sospese “temporaneamente … l’applicazione delle norme concernenti la limitazione del numero dei posti da conferire annualmente per l’iscrizione o per trasferimento negli albi degli avvocati”, cioè il numero chiuso degli esercenti la professione forense, che, sino alla caduta del Fascismo, funzionava come quella dei notai. Il sistema giudiziario italiano era concepito sulla base dei principi derivati dal diritto romano, con i Tribunali che decidevano sempre in composizione collegiale e con le Preture che si occupavano delle questioni di minor rilevanza economica, ancorché a volte socialmente deflagranti, e delle questioni d’urgenza. I Pretori erano magistrati togati di grande valore, capaci di dare veramente giustizia, per lo più giovani, che trasferivano nei collegi le esperienze accumulate nel territorio. I Tribunali erano viceversa concepiti per controllare l’operato dei Pretori e per occuparsi delle questioni di maggior rilievo. Poi le riforme, assolutamente inorganiche, che hanno abolito le Preture, istituito i Giudici monocratici di Tribunale e le sezioni staccate degli stessi, nei locali delle ex Preture, sicché si è passati da un sistema centrale che esercita la giurisdizione in sede locale ad una giustizia localizzata nella quale i politici di turno sperano di cimentarsi nel business della edilizia giudiziaria. Il Governo Monti, in contrasto formale con il CNF, ma sostanzialmente in linea con il pensiero ed i modi di operare dei suoi vertici, ha deciso di attuare una controriforma il cui effetto sarà che la libera professione non costituirà più quell’ammortizzatore sociale che è stato negli ultimi cinquanta anni. Infatti i piccoli studi saranno costretti a chiudere per effetto della perdita delle tutele residue, dei costi del contenzioso e della necessità di organizzarsi in strutture ben organizzate per far fronte alle miriadi di incombenti imposte dalle varie normative (fiscali, sulla privacy, sulla salute dei lavoratori, sulla privacy, sul riciclaggio, ecc.). Per farlo Monti ha scelto non già la strada diretta di una riforma organica, ma quella di tagliare con norme sparse qua e la i tanti vasi capillari che davano linfa ad un sistema di libero individualismo sicuramente malato, ma che, morendo, trascinerà con sé non solo le proprie scorie, ma anche quel bene prezioso che esso aveva incarnato, la libertà di difesa che avrebbe dovuto essere esaltata. Perché se è teoricamente accettabile (o, comunque, discutibile costruttivamente) un drastico sistema di riduzione del numero degli esercenti una professione ed una rivisitazione della geografia giudiziaria, è sicuramente inaccettabile il taglio delle motivazioni dei provvedimenti giurisdizionali e delle possibilità di impugnarli. Significa trasformare i giudici monocratici, in quanto tali più facilmente esposti ad errori e condizionamenti, da esponenti di grande rilievo di un sistema comunque improntato alle garanzie dei tre gradi di giudizio a “quasi dittattori” di un sistema che si manifesta in partenza refrattario alla critica intellettuale costituita dall’appello. Non sfuggirà ai lettori conoscitori delle elementari cognizioni del diritto pubblico come l’ultimo decreto legge emanato dal Governo per la “crescita dell’Italia“, cioè il D.L. 83/2012, contenga agli artt. 54, 55 e 56 una profonda aberrazione giuridica, una sorta di golpe in danno della giustizia civile, che non si riesce a comprendere come possa essere stato avallato dal Presidente della Repubblica con la propria firma. Infatti, probabilmente per la prima volta nella storia della Repubblica, si legge su un decreto legge: “Le disposizioni di cui al comma 1, lettere a), c), d) ed e) si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” (art. 54, 2° co.). Una disposizione analoga è prevista per il successivo art. 55 di riduzione delle possibilità di trovare tutela nella cosiddetta legge Pinto. L’art. 77 della Costituzione, norma fondamentale della democrazia parlamentare repubblicana, in assenza della quale si sarebbe affermato che alla dittatura fascista è succeduta una dittatura democratica di staliniana memoria, afferma che il Governo può emanare “decreti che abbiano valore di legge ordinari” solo “in casi straordinari di necessità ed urgenza”. La Corte Costituzionale, con la sentenza n 360/1996, aveva imposto severe restrizioni alla prassi dei governi sino ad allora succedutisi di servirsi dello strumento del decreto-legge per assumere di fatto il ruolo del Parlamento. Non è necessario essere dei giuristi per capire che una norma che entra in vigore trenta giorni dopo la legge di sua conversione non ha il requisito dell’urgenza e, quindi, non poteva essere utilizzata dal Governo quale strumento normativo e non doveva portare l’avallo del capo dello Stato, in altre occasioni attento difensore della legalità costituzionale. Il gioco è chiaro: il Governo porrà la fiducia sul decreto e una norma non urgente diventerà legge, perché non si potrà immolare il “salvataggio” dell’Italia sull’altare delle garanzie del cittadino ad avere un appello equo di fronte ad una possibile sentenza civile ingiusta. Ci si potrà appellare al golpe e sollevare l’eccezione di incostituzionalità, ma probabilmente si rimarrà senza appello in una Italia salva, con Tribunali funzionanti, ma priva di giustizia.
Romolo Reboa
* Avvocato del Foro di Roma
Fondo 5_2012