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Giustizia e nanismo

altNon è mio stile utilizzare le pagine di questo giornale per parlare di vicende che mi coinvolgono personalmente. E’ una scelta di etica giornalistica, ritengo che non sia corretto utilizzare le pagine di una testata che si dirige per indirizzare l’opinione pubblica in una questione giudiziaria in cui si è obtorto collo protagonisti.

Altri la vedono diversamente, in questi giorni si parla del caso Sallusti ed egli utilizza le pagine de Il Giornale per far conoscere la propria opinione su quella che è palesemente un’ingiustizia che rischia di mettere in pericolo il principio di libertà di espressione solennemente sancito dall’art. 21 della Costituzione: è legittimo, quel caso giudiziario attiene alla professione di giornalista e il diffamato era un Magistrato, mentre nel mio caso è stata la libertà della professione forense ad essere l’oggetto indiretto dell’azione giudiziaria e, quindi, spettava ad altri e non all’imputato assumere il ruolo di difensore.

Ora che la vicenda si è conclusa e la Magistratura ha affermato definitivamente che un avvocato era stato indagato e condannato in primo grado per un “fatto che non sussiste”, è però doveroso chiedersi come tutto ciò sia potuto accadere.

Il caso è stato trattato per sette anni dalla stampa ed è presente su internet, quindi dedicherò cercherò di riepilogarlo in poche righe.

Marzo 2005: ricevo da un cliente l’incarico di assisterlo perché vuole denunciare alla Magistratura una grave violazione delle regole democratiche, la partecipazione alle elezioni regionali del Lazio della lista Azione Sociale, messa su dall’on. Alessandra Mussolini in competizione e disturbo del presidente uscente, Francesco Storace.

Si deduce che la violazione consisterebbe nell’aver presentato la lista, utilizzando migliaia di firme false. Mi vengono consegnate le prove della falsità, costituite dalle copie delle certificazioni anagrafiche ove è annotato il rilascio di una carta d’identità diversa da quella che si afferma sarebbe stata utilizzata per la identificazione dei firmatari.

Deposito denuncia e documenti consegnatimi (dei quali rilascio per trasparenza regolare ricevuta) alla Procura della Repubblica e, poi, copia del tutto alla Commissione elettorale presso la Corte di Appello di Roma che, in adesione all’istanza ritualmente presentata, in autotutela revoca l’ammissione della lista alla competizione elettorale.

Tutte le pronunce successive della Magistratura confermeranno che quella esclusione era legittima e doverosa, ma l’allora Sindaco di Roma, Walter Veltroni, si butta a capofitto della vicenda, denunciando che l’acquisizione dei certificati elettorali via internet era una incursione informatica dell’avversario politico Francesco Storace.

La strana alleanza Veltroni / Mussolini si rivela vincente sia per quest’ultima, dato che il Consiglio di Stato la fa partecipare provvisoriamente alle elezioni regionali, sia per la Sinistra tutta, la cui stampa trasforma una richiesta di tutela giudiziaria nel Laziogate, con una campagna scandalistica che farà perdere le elezioni a Storace e, poi, lo indurrà a dimettersi da Ministro della Salute, non perché qualcuno glielo abbia imposto, ma perché la sua etica da combattente vigoroso, ma intimamente gentiluomo gli impone di farlo.

Nel frattempo la Magistratura indaga e non risparmia nessuno: così la richiesta di documenti necessari per provare il reato fatta dall’avvocato si trasforma in un’ipotesi di “istigazione” al reato di “accesso abusivo ad un sistema informatico” di cui il pentito di turno si confessa autore, patteggiando una pena illusoria per trasformarsi nell’accusatore principale (e, invero, unico) dell’uomo politico vittima del reato elettorale, Francesco Storace, facendolo diventare il colpevole per l’opinione pubblica.

Fermo restando che ora si può affermare pubblicamente l’ “accesso abusivo ad un sistema informatico” non è mai esistito, è indubbio che tale reato sia da classificarsi giuridicamente tra le ipotesi criminose di minore entità: tuttavia un Giudice monocratico trasforma il relativo procedimento in una sorta di maxiprocesso, imponendo ritmi tanto serrati da smentire i dati sulla lentezza dei processi.

La percezione psicologica di tutti gli imputati in quei giorni è che il processo fosse lo strumento per arrivare alla condanna piuttosto che per ricercare la verità, ma nessuno perde fiducia nella Magistratura, anche quando si arrivò ad una condanna clamorosa: il nostro sistema giudiziario prevede tre gradi di giudizio.

Certo è duro, per un giurista, leggere che la prospettazione al cliente di un possibile accoglimento dell’azione giudiziaria può trasformarsi, per l’avvocato, in un’ipotesi di concorso morale nell’altrui reato, ma, si sa, una delle caratteristiche del diritto è quella di evolversi e, quindi, l’unico rimedio tecnico è il gravame.

La Corte di Appello di Roma, il 29 Ottobre 2012, ha dichiarato su conforme richiesta del P.G. che “il fatto non sussiste”.

Qualche fatto però rimane e non solo per il danno provocato ai protagonisti dal processo e dal suo clamore mediatico: affrontando e parlando con altri avvocati della mia vicenda, si scopre che il mio caso di coinvolgimento in fatti che riguardano il cliente in dipendenza dell’attività forense non è isolato.

E’ possibile che un avvocato sia coinvolto in illeciti del cliente, ma se si identifica tale coinvolgimento nell’attività di consulenza che viene identificata come concorso morale, significa che la Magistratura ha dichiarato che la professione forense è una professione ad alto rischio, come quella della Croce Rossa in una zona di guerra.

Di fronte a tutto ciò, cosa ha fatto l’Avvocatura nel mio caso, così come in quelli dei tanti onesti colleghi coinvolti in vicende similari? E’ rimasta silente, limitandosi a consentire al collega di continuare a lavorare, in una sorta di nanismo castrante che contribuisce al degrado della giustizia.

Io non intendo unirmi al coro del silenzio e, uscito dal vincolo che mi ero imposto quale imputato, denuncio pubblicamente che il coinvolgere gli avvocati come concorrenti di altrui reati costituisce un grave attentato al diritto di difesa, contro cui le associazioni forensi, se vogliono avere una ragione di esistere, debbono battersi.

Il diritto di difesa è la differenza tra una dittatura e uno stato democratico, anche la Magistratura dovrebbe ricordarlo allorché formula simili affrettate accuse.

Romolo Reboa*

Avvocato del Foro di Roma