Cancellieri fuori di testa
Si può essere o non essere d'accordo con il "decreto del fare" che ha reintrodotto la mediazione obbligatoria, ma non è accettabile che in Italia sia fastidioso ciò che, in ogni nazione civile, è naturale in quanto logico: gli interlocutori naturali e primari di un governo in tema di provvedimenti sulla giustizia sono gli operatori, in primis avvocati e magistrati.
Del resto riesce difficile credere che un imprenditore privato, ad esempio Marchionne, identifichi interlocutori diversi dai sindacati metalmeccanici allorché deve operare una ristrutturazione aziendale: potrà avere sigle sindacali a lui più o meno gradite o giudicate combattive, ma non rappresentative, come dimostrato dalle vicende di cronaca relative al confronto FIAT, ma mai egli penserà di confrontarsi con i gelatai sul modello di ristrutturazione dei propri stabilimenti…
Il problema politico non è la gaffe mediatica del Ministro di "levarsi dai piedi gli avvocati", ma quello che sottintende. E' evidente che la Cancellieri ragiona come un cancelliere quando si trova di fronte ad un avvocato che protesta perché il suo ufficio non funziona secondo le modalità previste da legislatore: l'esperienza insegna che egli, la maggior parte delle volte, parla non per trovare la soluzione al disservizio, ma per liberarsi celermente e con i minori danni possibili di quello che percepisce come un seccatore e continuare a fare il proprio lavoro come se nulla sia successo.
Il fatto è che i cancellieri sono, per lo più, dei "poveri Cristi", per usare un termine dialettale, cioè dei funzionari costretti a districarsi quotidianamente tra carenze di personale, riforme fatte con i piedi, sistemi informatici che non funzionano e responsabilità superiori alla possibilità di fare bene il proprio lavoro.
Viceversa la Cancellieri non sta nell'ufficio di via Arenula per "guadagnarsi la pagnotta" come i suoi omonimi funzionari, ma in quanto ha scelto di assolvere lo specifico compito di trovare la soluzione ai problemi della giustizia.
Non è un ministro tecnico, non è laureata in giurisprudenza, ha avuto esperienza di problemi della giustizia solo quale Ministro dell'Interno, fatto che, unito alla gaffe, lascia pensare che, per lei, il diritto di difesa sia un aspetto secondario, quasi un ostacolo alla realizzazione dello scopo, che per il poliziotto è l'ordine e per il burocrate la funzionalità della macchina amministrativa, senza intoppi, senza che qualcuno si frapponga, rappresentando che una medaglia ha sempre un'altra faccia…
Lo scontro tra l'espressione intellettualmente più elevata della classe forense e la politica non è sulla mediazione civile o sulla questione locale di mantenere o abolire un ufficio giudiziario, ma sul concetto stesso di processo.
Per la maggior parte dei ministri degli opposti orientamenti politici succedutisi negli ultimi anni, l'unica strada alla soluzione al problema della giustizia e delle sue lentezze è stata identificata nella necessità di pervenire il prima possibile ad una decisione, qualunque essa sia, in primo grado.
Gli ultimi governi hanno proseguito questo percorso decisionista, rendendo la motivazione della sentenza quasi un optional (alcuni ipotizzavano persino di stabilire che la parte dovesse pagare se voleva che il giudice motivasse il provvedimento…) e la strada per la sua rimozione irta di ostacoli, ove la censura di inammissibilità del gravame evita di porsi il problema se sia stata fatta o meno giustizia.
La contrapposizione intellettuale di fondo è tra questa visione del processo come uno strumento del "servizio giustizia" e quella che esso sia il percorso necessario ed indispensabile per tentare di giungere ad una decisione il più conforme a giustizia.
Nelle dittature o nei processi militari di guerra si giunge alla sentenza e spesso alla condanna con estrema velocità: gli avvocati hanno poco potere, sono funzionali alla pantomima del processo sommario, che altrimenti sarebbe considerato un crimine.
Non si può negare che la dittatura offra spesso dei grandi vantaggi in termini di funzionalità dei servizi, atteso che sommarietà dei processi e certezza della pena lasciano poco spazio a lavativi o a contestatori di professione: non a caso l'Italia fascista si vantava della puntualità dei treni ed è riuscita a realizzare opere pubbliche in tempi incredibili rispetto a ciò che è stato costruito successivamente, pur in presenza di più moderne tecnologie.
Ma la strada che ha scelto l'Italia, dopo il 1945, è stata quella della Costituzione repubblicana, con i suoi artt. 24 e 111 che dovrebbero costituire un baluardo di fronte a determinate derive.
In altra pagina di questo giornale, il sen. Nitto Palma, ex Ministro della Giustizia, ricorda che non si può disciplinare la fisiologia sulla base della patologia: concetto altamente condivisibile, nel senso che, così facendo, lo Stato dimostra tutta la propria incapacità ed abdica la propria funzione di fronte alle situazioni di mal funzionamento.
Si dovrebbe rabbrividire ogni volta che si ascoltano uomini che guidano lo Stato parlare di "servizio giustizia": significa che essi non comprendono quel fondamentale principio costituzionale (ma anche umanistico) che prevede che, tra le funzioni fondamentali dello Stato, vi sia quella di assicurare la libertà individuale che non può esistere se non funziona la giustizia, ma quella vera, con la "G" maiuscola.
Rinunciare di fatto alla motivazione del provvedimento finale del processo attraverso quello che viene definito come "percorso di sintesi" (motivazione sommaria) significa trasformare il giudice in un poliziotto ancor più pericoloso, perché privo del controllo del giudice.
Il problema non è chiudere questo o quel tribunale o far precedere il processo da un tentativo di far deflagrare il contenzioso minore, ma comprendere se l'Italia voglia rinunciare a quella civiltà giuridica millenaria in virtù della quale gli istituti del diritto romano sono tuttora tra i pilastri del diritto privato mondiale.
Se la politica giudiziaria la fanno dei cancellieri che guardano solo ai numeri e non alla qualità del prodotto: forse sarebbe opportuno che sia il popolo a levarsi dai piedi personaggi di così scarsa caratura e non essi gli ultimi difensori della libertà e dei diritti della gente, gli avvocati.
di Romolo Reboa*
* Avvocato del Foro di Roma