Sulla carta stampata la notizia non è sostanzialmente apparsa e, quindi, InGiustizia la PAROLA al POPOLO ha la primogenitura di una notizia vecchia che è nuova solo per il silenzio cui è stata condannata.
Eppure in qualunque nazione democratica sarebbe finita in prima pagina, in quanto è la prima volta che la Suprema Corte di uno stato emette una pronuncia di cotanta portata politica.
Ecco la notizia: la Corte di Cassazione, con sentenza n° 8878/2014 del 4/16 Aprile 2014 ha stabilito che gli Italiani non hanno <>.
E’ una sentenza storica, non solo per ciò che ha scritto il Supremo Collegio, ma anche perché apre la strada alla richiesta di risarcimento danni da parte dei singoli cittadini nei confronti di uno stato sostanzialmente incapace di tutelarne (quantomeno in termini temporali ragionevoli) il diritto fondamentale al rispetto della democrazia, che dovrebbe essere garantito dalla Costituzione Repubblicana e che è condizione dell’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea ai sensi del coordinato disposto degli artt. 2 e 49 del Trattato su cui si basa tale Unione.
Ignorata dalla grande stampa, ma sostanzialmente oscurata anche sul web, ove di essa è reperibile non già nei blog o nei siti di carattere giornalistico, ma è relegata ai siti riservati agli studiosi, cioè a quelli di giurisprudenza o istituzionali, per i quali 8878/2014 è solo il numero di una delle migliaia di sentenze civili che la Suprema Corte pronuncia ogni anno e che vengono massimate al fine di essere utilizzate negli scritti giudiziari.
Considerato che il contenzioso in materia di diritti civile ha numeri insignificati, dato che gli Italiani non hanno molta voglia di spendere il loro denaro per lunghe querelle giudiziarie dalle quali è difficile prevedere risultati concreti per la loro libertà o, anche, solo per il loro portafoglio, è facile comprendere perché sia più facile leggere nella prima pagina di un quotidiano la love story di qualche personaggio noto che una notizia di questo genere.
Anche perché, se essa finisse veramente sulle prime pagine, si disturberebbe il manovratore, dato che potrebbe risvegliare nelle coscienze risorgimentali ardori e voglia di far piazza pulita con un sistema che si regge sulla propria melmosa debolezza, ove è più facile affondare che misurarsi in uno scontro cavalleresco con un vincente ed un perdente.
Della sentenza ha scritto sul proprio blog Beppe Grillo il 30 Aprile 2014 per attaccare il Presidente Napolitano che, dopo tale pronuncia, non ha assunto la decisione di sciogliere le Camere: la notizia dopo un paio di giorni è passata di fatto all’archivio, non si sa se il motivo siano state la scarsa adesione sul blog (solo poche decine di interventi) o perché qualcuno ha telefonato al comico genovese per avvertirlo che non si deve scherzare sulle cose serie e lui, diligentemente, ha capito che vi sono limiti che non devono essere superati.
Perché una cosa è fare ridere o conquistare qualche centinaio di posti in parlamento per porsi quale interlocutore dei poteri forti ed un’altra è tentare di farli piangere sul serio.
Solo InSieme Consumatori sta dando vita ad una class action, attraverso un’azione giudiziaria collettiva, ma è chiaro che, quand’anche questa lotta di Davide contro Golia si rivelasse vincente, rimarrebbe lo squallore di una grande stampa e di una classe politica acquiescenti a poteri tanto forti da condizionarli al silenzio, quanto ignoti nel loro volto.
Sicché parlare di poteri forti diviene come parlare di fantasmi: tutti li temono affermandone così implicitamente l’esistenza, ma poi deridono come un esaltato chi ne parla troppo a lungo o con convinzione, arrivando a dire di averli visti.
Perché i poteri forti sono il sinonimo dell’ignoto o di un qualcosa che sta troppo in alto per essere raggiunto: così come è troppo forte, in Italia, la concezione che chi entra nel portone di Palazzo Chigi ha raggiunto il potere e non solo ricevuto l’incarico da parte del Presidente della Repubblica di realizzare un programma di governo nel rispetto delle regole democratiche.
E, così, le regole democratiche si cambiano per preservare alla casta ed ai suoi capi la leadership in pericolo, per evitare che attraverso il voto gli elettori possano effettivamente cambiare le regole del gioco.
Ma perché cambiare uno strumento che consente di controllare il potere? Solo perché la Corte Costituzionale, con la sentenza 1/2014, ha ripristinato la legalità violata da una legge elettorale, comunemente definita Porcellum, che ha sottratto al popolo la possibilità di scegliere i propri rappresentati e violato uno dei principi fondamentali della Costituzione Repubblicana?
Ai politici basta trincerarsi dietro il corretto principio giuridico ribadito dalla Corte Costituzionale, cioè che, per preservare la continuità dello stato di diritto, la decisione non incide giuridicamente sulla validità degli organi eletti che possono quindi continuare a funzionare.
E’ un principio giusto, come quello della presunzione di innocenza sino a sentenza definitiva, che però, quotidianamente la stampa viola, sbattendo in prima pagina persone che sono in quel momento accusati di corruzione o di gravi delitti di sangue, affidandoli alla giustizia popolare che li condanna inappellabilmente, lasciando ai giudici solo il compito di determinare la pena, ove non vogliano essere anch’essi ritenuti complici dei <>.
Nel Porcellum gli illegittimi in prorogatio continuano a comandare e vorrebbero riscrivere le regole del gioco, interpretando così il termine Resistenza, che viceversa è un periodo storico idealmente ispirato a ben altri valori.
Romolo Reboa
* Avvocato del Foro di Roma